
Il rumore sommesso del traffico del mattino viene sovrastato dalla sirena bitonale di un’ambulanza. Si sente da lontano, si avvicina, pensi che vada oltre, invece si ferma a poca distanza da te, cessa di suonare.
Ti affacci alla finestra per curiosità, per sapere in quale punto della strada l’auto si è fermata e la vedi di fronte alla tua casa, con il lampeggiante ed il motore acceso. Tre persone, zaino in spalla, scendono veloci, si avvicinano al portone spingendo una barella e spariscono per 15 lunghi minuti. Tornano in strada accompagnando un ammalato, anziano, disteso sul lettino, coperto sino al viso, in parte nascosto dalla mascherina. Lo conosci, l’hai incontrato tante volte. Scendono in strada anche un’anziana signora, la moglie, e due figlie, tutte col viso protetto. Pochi minuti e poi l’ambulanza riparte. Le tre donne dall’esterno tentano di dare un saluto al loro marito e padre, forse l’ultimo saluto, forse l’ultimo bacio soffiato sulla punta delle dita, visto che l’uomo, già sofferente di problemi cardiocircolatori, è ammalato di Covid e non si salverà.
Il poveretto, dopo una vita spesa per la famiglia e la società, non avrà il conforto di avere vicino gli affetti nel momento del trapasso. Morirà da solo nel trambusto di un ospedale, tra il viavai di medici ed infermieri bravissimi ma troppo indaffarati per poter dedicare un po’ di tempo in più agli ammalati più gravi. Un sacerdote, coraggioso, si avvicina per chiudergli gli occhi, recitare una preghiera e dargli una benedizione. Mentre là fuori i parenti, disperati, si struggono per non aver potuto consolare il congiunto sino alla fine. Non potranno più vederlo neanche da morto, sigillato subito per cautela nella bara.
Destino crudele o incapacità dell’uomo moderno di trovare soluzioni “umane” a traumi del genere?
Ho raccontato questo episodio, purtroppo vero e molto frequente, per far riflettere sul bisogno di affetto che l’uomo ha dal momento della nascita sino all’ultimo istante di vita, lungo tutto il percorso.