Un giovane occitano cap 4

(foto fg)

Cap. 4 – Il tormento di Adalgisa

Adalgisa era turbata per la scoperta. Il suo stato d’animo non era dei migliori. In pochissimo tempo tante certezze riguardanti le sue origini, il casato, la comunità, erano state messe in discussione. Non era affatto contenta per il grosso problema che le si presentava così all’improvviso, che avvolgeva di incertezza la sua storia. Aveva lo stomaco chiuso e non riusciva a mandare giù proprio niente, nonostante il conforto dei familiari. Adalgisa provò a ricostruire la sequenza genealogica. Prese un foglio di carta, una penna, e provò a scarabocchiare dei cerchi nei quali scrisse il nome degli antenati. Nel primo scrisse Marianna e Vincent, barra Rosario. Poi più giù la figlia Lorena, sua nonna paterna. Al rigo successivo Sebastiano, suo padre. Sull’ultimo rigo scrisse il suo nome.

Allora, riepilogando, sino a qualche giorno prima aveva creduto di essere pronipote di Marianna e Vincent, entrambi walser, invece ora aveva scoperto di essere pronipote di Marianna, una walser, e Rosario, un occitano.

E lei, come si doveva considerare? Senza dubbio walser, però da quel momento prese a guardare gli occitani con maggiore simpatia. In fondo non le dispiaceva quel miscuglio di razze, anzi osservava che il suo carattere allegro, scanzonato, era più tipico delle popolazioni valligiane meridionali, per cui sentiva scorrere nelle sue vene un sangue leggermente diverso dal walser, avvertiva di possedere qualche qualità più presente nella gente occitana. Ma il fatto accaduto alla sua bisnonna non cambiava le cose: lei era e continuava a sentirsi una walser, come i genitori ed i nonni, e tale sarebbe rimasta per sempre!

Il più bello dei mari

mare Tirreno (fotofg)

Poesia del mese di settembre

Il più bello dei mari è la composizione più celebre di tutta la produzione di Nazım Hikmet (poeta turco naturalizzato polacco 1902 – 1963)

Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto.

PERDERE, ma poi RITROVARE

Tutti abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita l’esperienza dello smarrimento di qualcosa di importante.  Possono essere le chiavi di casa, le chiavi dell’auto, il cellulare, un anello, dei monili, una borsa di documenti, un portafoglio, un oggetto caro o un affetto.

Irrompe l’ansia, si cerca di fare mente locale sugli ultimi movimenti, si fa ricorso alla memoria per trovare l’ispirazione giusta e ritrovare subito l’oggetto smarrito: ma niente! Si cade nell’irrazionalità.  Si gira a vuoto da una parte all’altra, si ripercorrono gli ultimi passi, guardando negli angoli più impensabili e disparati. Ma dove sarà finito? Boh!! Eppure deve essere da qualche parte. Sopraggiunge il dubbio che quanto smarrito sia stato oggetto di furto con destrezza. L’angoscia cresce. La pressione arteriosa pure. Una vampata di calore ti pervade e la rabbia ti acceca. È troppo importante quello che si è smarrito.

Calma!

Dopo un periodo di tempo, breve o anche lungo, ecco che il bene perduto viene ritrovato . E dov’era? Li, quasi al suo posto e solo un temporaneo e strano accecamento aveva impedito di vederlo subito. Come se ci fosse stato lo zampino di qualcuno, come se quell’oscuramento fosse stato un segno per farci comprendere il reale e grande valore dell’oggetto o sentimento perduto, che solo in seguito al ritrovamento torna ad assumere l’importanza originaria, prima dimenticata o sottovalutata.   

E allora, morale della favola: è facile smarrire un oggetto prezioso per distrazione, routine, poco interesse. Lo stesso vale per la stima o l’amore di una persona. Ma una cosa è certa: il bene perduto se è veramente importante lo si può ritrovare con la volontà, la pazienza, la cura del proprio comportamento, forse con qualche rinuncia. Ma bisogna volerlo, e i risultati quasi sempre arrivano!

Il bacio

ciliegio in fiore ( foto fgrano)

Ti manderò un bacio con il vento
e so che lo sentirai,
ti volterai senza vedermi ma io sarò li
Siamo fatti della stessa materia
di cui sono fatti i sogni
Vorrei essere una nuvola bianca
in un cielo infinito
per seguirti ovunque e amarti ogni istante
Se sei un sogno non svegliarmi
Vorrei vivere nel tuo respiro
Mentre ti guardo muoio per te
Il tuo sogno sarà di sognare me

Ti amo perché ti vedo riflessa
in tutto quello che c’è di bello
Dimmi dove sei stanotte
ancora nei miei sogni?
Ho sentito una carezza sul viso
arrivare fino al cuore
Vorrei arrivare fino al cielo
e con i raggi del sole scriverti ti amo
Vorrei che il vento soffiasse ogni giorno
tra i tuoi capelli,
per poter sentire anche da lontano
il tuo profumo!
Vorrei fare con te quello
che la primavera fa con i ciliegi.

Pablo Neruda.

L’amore è dolore, chi ama soffre

Antica torre del castello di Cavagliano

Pubblicazione del racconto completo.

Nella tarda mattinata di una domenica di aprile nella campagna a nord di Novara un cuculo, dalla sommità di una quercia, ripeteva, monotono, il suo verso. All’inizio era piacevole sentire quel canto, ma dopo ore e ore di gorgheggio continuo e monocorde la stanchezza prendeva il sopravvento e si rafforzava sempre più il desiderio che quel grazioso e solingo pennuto smettesse di esprimere il suo lamento.

Il cuculo di solito arriva puntuale a primavera, staziona qualche giorno nello stesso posto, poi va a nidificare nei nidi altrui. Anche quest’anno il suo arrivo era stato interpretato con favore, ma nello stesso tempo era sembrato che il canto, questa volta, non fosse lo stesso degli altri anni. Era parso che esprimesse un lamento più accentuato del solito.

All’imbrunire di quel giorno nell’aria si dipanavano le note di un violino lontano. Da parecchio tempo non si sentiva. Qualcuno, in un’atmosfera esoterica e misteriosa, suonava la sinfonia n. 7 di Beethoven, malinconica e struggente, quasi arrabbiata, un grido di dolore per una missione incompiuta, delle vite spezzate, un amore ferito.

Una leggenda del luogo narra che quella musica, bella e coinvolgente, provenga da una delle torri del paese, suonata da un musicista molto bravo ma che nessuno ha mai visto, il quale vuole ricordare una tragica storia ricca di sentimento, vissuta alcuni secoli prima in questi stessi posti, e che ora voglio qui raccontare.

La storia

Nel tardo medioevo viveva in un castello alla periferia di Novara, una giovane e bella nobildonna, Maria Berengaria Helena di Cavagliano, discendente di una nobile famiglia svizzera, sposa di Carlo Ferdinando, un feudatario locale parecchio più anziano di lei. Il marito aveva ottenuto il feudo dai Signori di Milano, suoi parenti, per essersi adoperato con successo al loro fianco durante le battaglie contro i nobili del Monferrato, che aspiravano ad impossessarsi delle terre novaresi per raggiungere poi più facilmente i territori lombardi.  Una volta respinti i nemici, Carlo Ferdinando aveva ricevuto per riconoscenza un castello fortificato con tanto di corte, compreso un vecchio caseificio, dove si produceva dell’ottimo formaggio erborinato, vanto della popolazione locale, nonché stalle, depositi, abitazioni basse per i contadini e i lavoranti, ed inoltre terreni circostanti estesi migliaia di pertiche.  Il complesso immobiliare era stato espropriato ad un’altra famiglia del basso Piemonte rimasta soccombente in una delle tante battaglie.

Questa era la versione ufficiale, ma alcune persone, tra la gente del popolo, più concrete, dicevano che il regalo era frutto delle simpatie particolari che uno dei rampolli lombardi, tale Goffredo, cugino di Carlo Ferdinando, nutriva verso la bella Helena. Egli aveva tanto caldeggiato il dono presso suo padre, che costui aveva accettato di accontentare il figlio.

La giovane Helena, molto dinamica e avvenente, amava organizzare tante feste, per qualsiasi occasione. Sposata a 18 anni, aveva intessuto molte relazioni con le signore dell’alta società del tempo benché avesse tanti limiti ed ostacoli nella loro frequentazione a causa delle distanze che le separavano. Accadeva di frequente, durante la bella stagione, di recarsi in visita presso le sue amiche o parenti, accompagnata dalla servitù, in località lontane che richiedevano viaggi in carrozza estenuanti. Le visite perciò duravano parecchi giorni. Il marito era spesso assente impegnato in azioni militari alleato dei signori di Milano. Al castello Helena restava spesso sola e, giovane com’era, non vedeva l’ora di frequentare gente per conversare, ascoltare buona musica, assistere a giochi di giullari.

A ventotto anni Helena aveva già quattro figli. I maldicenti dicevano che due di loro non somigliavano al padre, non essendo figli legittimi ma frutto di un amore clandestino.

Il cugino Goffredo, di età poco superiore alla sua, la riveriva spesso e la omaggiava con libri e piante esotiche. 

Da qui era nato pian piano un sentimento di reciproca attrazione tra i due, che all’inizio si esternava con sguardi significativi, messaggi poetici, allusioni vaghe, poi i contatti si fecero più frequenti e stretti. 

Era abitudine che in inverno venissero organizzate battute di caccia al cinghiale, che duravano anche una settimana e oltre, partecipate da decine di cacciatori. Helena e Goffredo cavalcavano vicini e con facili stratagemmi avevano occasione di far perdere le loro tracce, grazie alla complicità di contadini compiacenti che li facevano riparare in masserie isolate, nelle quali potevano dare libero sfogo ai loro impulsi d’amore.

In particolare i loro incontri avvenivano in una cascinetta usata d’estate dai contadini ma che d’inverno era disabitata. Vi si accedeva da un lungo cunicolo sotterraneo. A quell’epoca alcuni grossi manieri, tra cui quello in cui abitava Helena, e alcuni conventi della zona erano tra di loro collegati da tunnel scavati sotto i campi, lunghi anche diversi chilometri, che avevano di tratto in tratto bocche d’uscita, coperte da una fitta vegetazione che le rendeva invisibili dall’esterno. Una di queste uscite era prossima ad una cascinetta e lì i due amanti si incontravano sicuri di essere al riparo da sguardi indiscreti.  

Le battute di caccia più interessanti venivano organizzate nei mesi di gennaio e febbraio. Spesso la neve cadeva abbondante. La campagna, vasta e pianeggiante, diventava un enorme campo bianco, da cui spuntavano di tanto in tanto, qua e là, alberi scheletriti, aceri, querce, robinie e qualche piccolo bosco di noci. Le masserie erano parecchio distanti una dall’altra, frequentemente separate da lunghi canali che d’inverno diventavano strade di ghiaccio ricoperte di neve, difficili da vedere ed estremamente pericolose per coloro che non le conoscevano.

I due amanti erano giovani, di bell’aspetto, appassionati della natura e della caccia, soprattutto dell’attività venatoria per l’opportunità che questo sport offriva loro di stare insieme. 

Anche la nebbia si presentava di frequente nel periodo invernale fitta ed impenetrabile, diventando assieme alla neve una complice intrigante, una ninfa brumale dell’amore. Helena, in prossimità della battuta di caccia, riusciva ad avvisare per tempo e in gran segreto il massaro Andrea, il quale era pronto a preparare la nota cascinetta perché potesse offrire degna ospitalità nel caso che per il maltempo o per altri disguidi i cacciatori fossero stati costretti a usarla per ripararsi, impossibilitati a raggiungere il resto della comitiva, bisognosi di trascorrere la notte. Il massaro preparava la stalla per i cavalli, faceva trovare il foraggio e per i cacciatori si assicurava che la dispensa fosse bene approvvigionata di cibo. La legnaia disponeva sempre di ciocchi e rami spezzati da bruciare.  Una stanzetta interna accoglieva un giaciglio di fortuna fatto con materassi riempiti di foglie di mais e cuscini di piume d’oca. Il massaro chiudeva un occhio su quello che accadeva ed aveva tutto da guadagnare da quel tipo di collaborazione. Intanto non si faceva scrupoli di imbrogliare il padrone quand’era il momento di pagare la decima sul raccolto, dichiarando una resa di riso e di mais molto inferiore alla quantità realmente prodotta nei terreni che gli erano stati affidati per la coltivazione. La padrona lo sapeva, ma, per una tacita complicità e convenienza, taceva. Poi c’era la storia dell’omicidio di una guardia reale, in cui il massaro era rimasto coinvolto, ma nessuno sapeva la verità, a parte i suoi signori che gli avevano offerto ospitalità e protezione nella loro proprietà, comprando di fatto la sua fedeltà assoluta.

Quando i due amanti si rifugiavano nella masseria, lontani da occhi indiscreti, non vedevano l’ora di rifugiarsi nell’unica cameretta con il letto di fortuna e lì, nonostante il freddo pungente, aveva luogo il rapporto amoroso. Baci lunghi e appassionati esprimevano la passione meglio di mille parole. Era un sentimento forte che univa i due giovani, i quali, sin dal primo momento in cui si erano conosciuti ad una festa in casa di parenti comuni, avevano sentito un’attrazione straordinaria. Le mani di entrambi si stringevano vicendevolmente così forte da farsi male, ma era un male piacevole. Gli abbracci tanto appassionati da togliere il respiro. E poi le mani di Goffredo e di Helena iniziavano l’esplorazione dei rispettivi corpi attraverso la procedura dello svestimento, operazione complicata vista la montagna di abiti indossati, pieni di lacci, lacciuoli, fibbie, bottoni.

Passavano così tutta la notte. All’alba, stanchi ma felici, si rimettevano in cammino alla ricerca degli altri cacciatori, che nel frattempo si erano anch’essi rifugiati per la notte o nel castello o in altri casali sparsi nella pianura, dove capitava loro di vivere esperienze amorose occasionali con giovani contadinelle o meno giovani lavoranti, filatrici o addette alle stalle, abitanti delle masserie. Anche Carlo Ferdinando approfittava della circostanza per concedersi qualche libertà. Andava a far visita ad una non più giovane ma piacente e pia donna, perpetua dell’arciprete e, dicevano, consolatrice di anime inquiete in preda alle tentazioni della carne. Con lei trascorreva tutta la notte, dopo che il buon religioso era stato messo a dormire accompagnato da una buona tisana rilassante e soporifera.

Ma anche le storie più belle sono destinate a finire, specie se sono irregolari.

Un’anziana nutrice, serva fedele di Carlo Ferdinando, che aveva visto nascere, impegnata a badare ora ai suoi figlioletti, un giorno non seppe tacere e, interrogata con brusche maniere dal suo signore, sospettoso per alcune strane dicerie che gli erano giunte all’orecchio sul conto della moglie, a mezza bocca espresse anch’ella dei dubbi sulla condotta di Helena per via di suoi comportamenti inconsueti. Non erano sfuggite certe sue assenze prolungate per diverse ore, durante le quali non si sapeva dove quella andasse, per poi ricomparire dopo parecchio tempo, sporca di fango, scapigliata, di umore ambiguo. Distratta, poco interessata ai figli, si rifugiava nella sua camera a riposare sino al giorno dopo.

Senonché il marito, ingelosito, decise di porla sotto sorveglianza. Incaricò un uomo fidato scelto tra le sue guardie affinché la tenesse d’occhio e seguisse ogni suo movimento.

Ci volle più di un mese per scoprire la verità. Helena venne scoperta mentre, attraverso una porticina nei sotterranei del castello, si intrufolava di nascosto nel cunicolo segreto che portava fuori. 

La guardia la seguì con molta discrezione e poco dopo si accorse che la donna a metà strada incontrava un uomo armato, certamente un nobile, con cui proseguiva il cammino verso l’uscita della galleria sotterranea, sino alla nota cascinetta.

I sospetti di Carlo Ferdinando si erano rivelati fondati e la persona che gli aveva fatto la confidenza ne guadagnava in affidabilità e riconoscenza. Era stato un monaco a confidargli di aver visto la bella signora un giorno andare a passo spedito nel cunicolo, mentre egli, procedendo in senso opposto, era diretto verso un luogo segreto per un incontro altrettanto celato, non riferibile. Il religioso per non essere visto si era dovuto nascondere in un anfratto, aiutato dal buio, ma l’aveva riconosciuta ugualmente e, qualche giorno dopo non aveva esitato a riferirlo al marito, contando di acquistare merito ai suoi occhi. 

La tresca, che nel frattempo era divenuta meno prudente, venne ben presto scoperta. Un giorno che Helena si diresse verso i sotterranei per intromettersi nel cunicolo e raggiungere il suo amante, le guardie del marito saltarono a cavallo e raggiunsero ben presto la cascinetta, nascondendosi ben bene tra la fitta vegetazione. Quando i due amanti raggiunsero la località dal percorso sotterraneo ed entrarono nella cascina si intrappolarono da soli. Le guardie appostate là fuori entrarono, li afferrarono e li portarono a castello, dove vennero segregati in due celle sotterranee. Goffredo e Helena non si videro mai più ma i loro cuori continuarono a battere con lo stesso ritmo, tanto forte era l’amore che li univa.

Di Goffredo si persero le tracce. Si disse che fu pugnalato al petto ed il suo corpo gettato in un pozzo, costruito nei sotterranei del castello, molto profondo, con tante lame sporgenti all’interno, in grado di cancellare ogni speranza di sopravvivenza a qualunque malcapitato vi fosse caduto dentro.

Helena invece fu rinchiusa in una torre molto alta e stretta alla periferia della città. Le fu consentito di tenere solo qualche vaso di fiori. Qualche tempo dopo la donna, addolorata per la perdita del suo Goffredo e per le notevoli privazioni a cui era sottoposta, non sopportò quella vita. Una mattina la trovarono esanime sul letto, vestita bellissima come una sposa. Scoprirono che la sera prima si era preparata una pietanza con alcuni tuberi delle piante che coltivava, che si erano rivelati letali. 

La loro storia commosse molto la gente del luogo tanto che venivano recitate continue preghiere per la loro salvezza. Ogni anno la Confraternita del Gonfalone alla festa dell’Assunta, durante la processione, sostava ai piedi della torre e recitava orazioni e giaculatorie dedicate ai due sventurati in suffragio delle loro anime.

Era già l’imbrunire di quella domenica di aprile, serena e fresca quando per la via passò, con andatura lenta e stanca, un anziano contadino con una lunga canna in una mano, un retino ed un secchiello di plastica, pieno di delusioni, nell’altra. Era andato a caccia di rane nei fossi ma tornava quasi a mani vuote: non c’erano più le rane abbondanti di una volta! Il vecchio contadino, sentendo la musica nell’aria, ascoltata già altre volte, procedeva e per sua devota abitudine biascicava qualcosa in latino, come gli aveva insegnato tanto tempo prima un monaco. Erano orazioni intercalate con espressioni da osteria del tipo “in omnia pericula tasta testicula”, ma lui questo non lo sapeva. Erano in latino e per lui andava bene così.

Racconto estratto dalla raccolta “Un racconto tira l’altro” in corso di pubblicazione © Francesco Grano 2021

L’amore è dolore, chi ama soffre.

cascinetta – foto propria

Questo racconto narra la leggenda di due nobili amanti, Maria Berengaria Helena di Cavagliano ed il cugino Goffredo, vissuti nel tardo medioevo alla periferia di Novara, che rimasero vittima della loro ardente passione extraconiugale. Dalla vetta di un’antica torre risuonano ancora oggi, in determinati periodi della primavera, le note della sinfonia n. 7 di Beethoven provenienti da un violino adoperato magistralmente da un musicista che nessuno ha mai visto. La musica ricorda l’amore spezzato ma non distrutto dei due giovani a dimostrazione che lo spirito immortale supera la caducità del corpo e resta perenne.

Fra non molto vi sottoporrò il testo completo della storia. Per ora trascrivo l’incipit:

“L’amore è dolore, chi ama soffre.

Nella tarda mattinata di una domenica di aprile nella campagna a nord di Novara un cuculo, dalla sommità di una quercia, ripeteva, monotono, il suo verso. All’inizio era piacevole sentire quel canto, ma dopo ore e ore di gorgheggio continuo e monocorde la stanchezza prendeva il sopravvento e si rafforzava sempre più il desiderio che quel grazioso e solingo pennuto smettesse di esprimere il suo lamento.

Il cuculo di consuetudine arriva puntuale a primavera, staziona qualche giorno nello stesso posto, poi va a nidificare nei nidi altrui. Anche quest’anno il suo arrivo era stato interpretato con favore, ma nello stesso tempo era sembrato che il canto, questa volta, non fosse lo stesso degli altri anni. Era parso che esprimesse un lamento più accentuato del solito.

All’imbrunire di quel giorno nell’aria si dipanavano le note di un violino lontano. Da parecchio tempo non si sentiva. Qualcuno, in un’atmosfera esoterica e misteriosa, suonava la sinfonia n. 7 di Beethoven, malinconica e struggente, quasi arrabbiata, un grido di dolore per una missione incompiuta, delle vite spezzate, un amore ferito.

Una leggenda del luogo narra che quella musica, bella e coinvolgente, provenga da una delle torri del paese, suonata da un musicista molto bravo ma che nessuno ha mai visto, il quale vuole ricordare una tragica storia ricca di sentimento, vissuta alcuni secoli prima in questi stessi posti, e che ora voglio qui raccontare.

La storia

Nel tardo medioevo viveva in un castello alla periferia di Novara, una giovane e bella nobildonna, Maria Berengaria Helena di Cavagliano, discendente di una nobile famiglia svizzera, sposa di Carlo Ferdinando, un feudatario locale parecchio più anziano di lei. Il marito aveva ottenuto il feudo dai Signori di Milano, suoi parenti, per essersi adoperato con successo al loro fianco durante le battaglie contro i nobili del Monferrato, che aspiravano ad impossessarsi delle terre novaresi per raggiungere poi più facilmente i territori lombardi.  Una volta respinti i nemici, Carlo Ferdinando aveva ricevuto per riconoscenza un castello fortificato con tanto di corte, compreso un vecchio caseificio, dove si produceva dell’ottimo formaggio erborinato, vanto della popolazione locale, nonché stalle, depositi, abitazioni basse per i contadini e i lavoranti, ed inoltre terreni circostanti estesi migliaia di pertiche.  Il complesso immobiliare era stato espropriato ad un’altra famiglia del basso Piemonte rimasta soccombente in una delle tante battaglie.

Questa era la versione ufficiale, ma alcune persone, tra la gente del popolo, più concrete, dicevano che il regalo era frutto delle simpatie particolari che uno dei rampolli lombardi, tale Goffredo, cugino di Carlo Ferdinando, nutriva verso la bella Helena. Egli aveva tanto caldeggiato il dono presso suo padre, che costui aveva accettato di accontentare il figlio.”